Determinazione del prezzo nella cessione di quote: legittima la clausola di earn-out

1. Il caso

Con la sentenza del 30 ottobre 2020, il Tribunale di Roma Sez. spec. Impresa ha affermato la legittimità dell’accordo con cui le parti, nell’ambito di un contratto di trasferimento di partecipazioni sociali, avevano concordato un prezzo simbolico ed una futura eventuale integrazione dello stesso, pari al 50% dell’attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione, attraverso una pattuizione denominata «clausola di earn-out».

La vicenda controversa riguardava, in particolare, l’accertamento della validità di una scrittura privata autenticata relativa al trasferimento delle quote di una società fortemente indebitata, che a detta del ricorrente (cedente) era da dichiararsi nulla in quanto priva di giustificazione causale (in virtù del prezzo simbolico di un euro) e contraria a quanto stabilito dall’art. 1355 c.c.

La pronuncia del Giudice, dopo aver ripercorso brevemente la disciplina delle clausole di earn out, accertava se, nel caso di specie, la previsione di tale pattuizione potesse essere contraria a norme imperative e quindi oggetto di legittima censura da parte del ricorrente.

1. Che cos’è la clausola di earn out?

La clausola earn out è una pattuizione che consente di vincolare il prezzo di vendita alle potenzialità di crescita della società: un prezzo iniziale, cosiddetto «fisso», che dovrà essere pagato indipendentemente dall’andamento positivo o negativo della società; un prezzo variabile, cosiddetto «earn-out», che varierà a seconda degli obiettivi realmente raggiunti in un predeterminato lasso di tempo.

La ratio della clausola di earn-out risiede, dunque, nelle diverse aspettative che cedente e cessionario ripongono sulla performance, presente e futura, della società oggetto di compravendita.

Come precisato nella sentenza che qui si commenta: “In particolare, le clausole di earn-out non costituiscono una garanzia prestata dal venditore sulla redditività dell’azienda sottostante alla partecipazione venduta, bensì una modalità di determinazione del prezzo […]  la necessità di tali clausole, nella pratica, è da individuarsi non tanto nel disaccordo tra le parti sulla determinazione del prezzo, bensì nella necessità di aggiornare i dati economico/patrimoniali sui quali il compratore ha basato la propria valorizzazione della partecipazione a quelli effettivi alla data del closing. Pertanto, a differenza delle clausole di determinazione differita del prezzo che regolano il solo calcolo del prezzo, le clausole di earn-out implicano una componente aggiuntiva del prezzo collegata ad un evento incerto e futuro”.

La clausola in commento reca il vantaggio di facilitare l’avvicinamento di posizioni diverse riguardo al prezzo, potendo facilmente accadere che venditore ed acquirente valutino in modo diverso la performance futura degli utili dell’azienda: la parte così detta “fissa” viene concordemente pattuita dalle parti, le quali decidono, sempre di comune accordo, di ancorare la parte “variabile” al futuro andamento della società. In tal modo, il vantaggio riguarderà sia il venditore che l’acquirente: il venditore, qualora la società accresca il proprio valore durante l’arco di tempo prestabilito, conseguirà un prezzo maggiorato e, allo stesso tempo, l’acquirente, essendosi obbligato a pagare un prezzo maggiorato soltanto nel caso in cui la società raggiunga certi risultati, otterrà il vantaggio di acquisire una società che ha incrementato la sua produttività.

Tale clausola, inoltre, tutela le parti da un duplice rischio: per il venditore, il rischio di perdere il maggior profitto futuro realizzato anche attraverso il suo precedente apporto gestionale; per l’acquirente, invece, quello di trovarsi dinanzi alla possibilità di un esborso esoso a fronte del rischio che la società possa subire una diminuzione di valore.

3. I motivi della decisione

I ricorrenti sostenevano che il contratto di vendita della partecipazione societaria che le parti avevano stipulato il 24 febbraio 2016 fosse nullo, perché privo del prezzo e pertanto di una causa che giustificasse l’attribuzione patrimoniale che ne costituiva l’oggetto (combinato disposto dell’art. 1418, 2° comma, c.c., con l’art. 1470 c.c.); in subordine, esso era nullo perché stipulato in violazione del divieto imperativo di una condizione meramente potestativa (combinato disposto dell’art. 1418, 3° comma, c.c., con l’art. 1355 c.c.) e il suo oggetto era, di conseguenza, indeterminabile (combinato disposto dell’art. 1418, 2° comma, c.c., con l’art. 1346 c.c.). Dalla nullità del contratto del 24 febbraio 2016, le ricorrenti, poi, traevano la nullità dei successivi trasferimenti delle medesime partecipazioni sociali.

Secondo le prospettazioni delle ricorrenti, il contratto di cessione di quote sociali con il quale un soggetto trasferisce ad un altro la proprietà di una partecipazione sociale verso il corrispettivo di un prezzo costituisce un comune contratto di compravendita e la causa del contratto deve essere individuata nello scambio di un bene verso un corrispettivo pecuniario; dunque, a loro detta, il contratto del 24 febbraio 2016 non è riconducibile sotto lo schema causale della compravendita per inesistenza del corrispettivo.

Infatti, il prezzo di 1 euro deve ritenersi secondo i ricorrenti, meramente simbolico, per mancanza dell’elemento essenziale previsto dall’art. 1470 c.c.

Il Tribunale ha ritenuto tale rilievo non meritevole di accoglimento posto che, con particolare riferimento non solo ai contratti di trasferimento di partecipazioni sociali, ma anche a quelli aventi ad oggetto l’azienda o un ramo di essa, è pienamente legittima anche l’indicazione di un prezzo puramente simbolico (euro 1,00). Infatti nella prassi commerciale i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di partecipazioni societarie con valore negativo o prossimo allo zero prevedono sovente l’indicazione di un prezzo simbolico, senza necessariamente venir ricondotti nelle fattispecie della venditio nummo uno o della donazione: in questi casi, infatti, l’indicazione del prezzo «simbolico» è giustificata al solo fine della tassazione dell’atto o della sua repertoriazione, laddove la corrispettività viene individuata, caso per caso, dall’entità dei debiti che vengono trasferiti con l’azienda o società, ovvero da un interesse non patrimoniale del cessionario.

Inoltre, l’assenza del corrispettivo (non potendo comunque dirsi tale il prezzo meramente simbolico) non implica necessariamente di dovere inquadrare il negozio quale atto di liberalità, in quanto, nell’ambito di tali complesse operazioni, il cedente, attraverso detto atto (e pur non ricevendo un corrispettivo), consegue la realizzazione di un proprio interesse giuridico: ad es., l’alienante può essere liberato da responsabilità e debiti verso terzi, anche attraverso il semplice accollo ex lege dei debiti e dei rapporti di lavoro inerenti all’esercizio dell’impresa. In particolare, come è stato efficacemente affermato, la gratuità, di per sé sola, non è circostanza determinante per escludere la realizzazione, sia pure in modo mediato e indiretto, di un interesse comune anche alla parte alienante (arg. da Cass., 14 ottobre 2010, n. 21250).

Tra l’altro, nel caso di specie, il prezzo pattuito non era neppure meramente simbolico, in quanto le parti avevano pattuito una eventuale, futura integrazione del prezzo, pari al 50% dell’eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione.

In riferimento alla seconda eccezione di nullità il Tribunale evidenzia l’impossibilità di invocare la nullità della clausola in argomento in relazione a quanto previsto dall’art. 1355 c.c., in quanto il funzionamento in concreto del meccanismo di integrazione del prezzo non dipende dall’acquirente e, quindi, non viene violato il disposto della norma de qua, secondo il quale “E’ nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”: la predisposizione dei bilanci sulla cui base viene determinato il maggior prezzo da corrispondere, infatti, non spetta al soggetto acquirente, bensì agli amministratori della società, che nella loro attività sono tenuti al rispetto di norme imperative.

Infine, secondo le ricorrenti, il prezzo delle partecipazioni sociali sarebbe rimesso alla mera eventualità che la liquidazione sia definita con un attivo da ripartire fra i soci, eventualità che a sua volta dipende dalla conduzione della procedura di liquidazione, rimessa all’esclusivo ed insindacabile arbitrio del liquidatore. Conseguentemente, non essendo predeterminati in anticipo i criteri che seguiranno per la rideterminazione del prezzo (essendo richiamato esclusivamente la definizione “positiva” della liquidazione) e divenendo così il prezzo di acquisto della partecipazione sociale indeterminabile, il contratto sarebbe nullo in virtù del combinato disposto dell’art. 1418, secondo comma, c.c. con l’art. 1346 c.c.

Per il Tribunale neanche tale rilievo appare meritevole di seguito. Infatti, in primo luogo, la clausola è chiara nel prevedere l’integrazione del prezzo in misura pari ad una frazione «dell’eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione», con la conseguenza che sono certamente determinati i criteri di determinazione dell’integrazione del prezzo. Parte ricorrente, poi, sembra dolersi che non siano, invece, predeterminati in anticipo i criteri che presidieranno alla fase di liquidazione della società medesima. Tuttavia, tali criteri sono individuati direttamente dalla legge (e dall’assemblea della società che lo scioglimento ha deliberato), con la conseguenza che non vi è alcuna necessità che essi siano ripetuti all’interno della clausola di integrazione del prezzo.

4. Conclusioni

In riferimento alla prima eccezione di nullità si ritiene che, in assenza di specifiche norme riguardanti il trasferimento di partecipazioni nelle società, trovi applicazione la disciplina generale prevista dal Codice Civile.

In particolare, il contratto in argomento è inquadrabile nella fattispecie della compravendita, facente parte dei negozi a titolo oneroso in cui ognuna delle parti si ha un vantaggio e un sacrificio a seguito di una prestazione e una controprestazione.

Tale istituto è disciplinato dall’art. 1470 c.c., a norma del quale “la vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo”.

Ciò che distingue i negozi a titolo oneroso, e quindi la compravendita, dai negozi a titolo gratuito, è proprio la previsione di una controprestazione che, nel caso dell’istituto in esame, sarebbe la corresponsione di un prezzo a seguito di una determinata prestazione.

Analizzando il caso di specie, non si ravvisa alcuna violazione di quanto appena esposto, avendo il contratto previsto la corresponsione di un prezzo in parte in misura “fissa” ed in parte in misura “variabile” e non potendosi ritenere che il prezzo pattuito fosse meramente simbolico, in quanto le parti avevano pattuito una eventuale, futura integrazione del prezzo, pari al 50% dell’eventuale attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione.

In riferimento alla seconda eccezione di nullità si evidenzia l’impossibilità di invocare la nullità della clausola in argomento in relazione a quanto previsto dall’art. 1355 c.c., in quanto la determinazione del prezzo costituente la c.d. “parte variabile” non avviene ad opera dell’acquirente e, quindi, come correttamente sostenuto dal Tribunale nella sentenza in commento, non viene violato il disposto della norma de qua, secondo il quale “E’ nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”: la predisposizione dei bilanci (nel caso di specie, del bilancio di liquidazione) sulla cui base viene determinato il maggior prezzo da corrispondere ai cedenti spetta agli amministratori della società target i quali sono tenuti a rispettare le norme imperative che regolano tanto la responsabilità degli amministratori medesimi (e, dunque, la loro condotta) quanto le metodologie da seguire nella predisposizione del bilancio.

Analoga riflessione può effettuarsi in riferimento ad altra censura della parte ricorrente, la quale lamenta la mancata predeterminazione in anticipo dei criteri che presidieranno alla fase di liquidazione della società. Tuttavia, anche tali criteri sono individuati direttamente dalla legge (e dall’assemblea della società che lo scioglimento ha deliberato) e, di conseguenza, non è necessario inserirli all’interno della clausola di integrazione del prezzo.

In conclusione, alla luce di quanto appena esposto si ritiene che la clausola in esame sia uno strumento efficace a mediare tra la posizione del venditore e quella dell’acquirente, determinando un risultato che non dipende né dalla volontà del primo, né meramente dalla volontà del secondo, consentendo di tarare il prezzo delle quote oggetto di cessione sulla scorta dei futuri risultati economici, positivi o negativi.

Dott.ssa Elena Mura            

Avv. Francesco Giuseppe Ibba                         

                   

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