Indice
- Il caso.
- Patto di famiglia e patti parasociali.
- Pronuncia della Corte di Cassazione.
- Conclusioni.
- Il caso
Il presente elaborato analizza il contenuto di una recente pronuncia della giurisprudenza di legittimità, Cass. civ., 10 marzo 2021, n. 6591, in materia di non assoggettabilità di un patto di famiglia all’imposta sulle successioni e donazioni.
Vediamo brevemente i fatti di causa.
Il Sig. V.L., titolare del 99% della Società Immobilfin s.p.a., donava ai tre figli il 24,50% del capitale sociale, per mezzo di un patto di famiglia. In tale occasione le parti chiedevano l’applicazione del beneficio previsto dal D.lgs. n. 346 del 1990, art. 3, comma 4 ter, ossia l’esenzione fiscale dall’imposta sulle successioni e donazioni[1].
Il giorno successivo la stipula di tale contratto, le parti sottoscrivevano un patto parasociale con il quale disciplinavano il divieto di alienazione delle quote per cinque anni, il diritto di prelazione dei fratelli in caso di vendita della quota e l’amministrazione congiunta della società.
Qualche tempo dopo l’Agenzia delle entrate notificava a S.S., notaio rogante, l’avviso di accertamento di maggior imposta di donazione poiché riteneva che non sussistessero i requisiti per la concessione dell’esenzione di cui sopra. Conseguentemente il notaio impugnava l’avviso di accertamento innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, la quale rigettava il ricorso poiché mancavano i requisiti richiesti ai sensi dell’art. 3 del D.lgs. n. 346/1990: controllo della società ai sensi dell’art. 2359 del Codice civile, prosecuzione dell’impresa o controllo di essa per un periodo non inferiore ai cinque anni.
Tuttavia, il notaio appellava la pronuncia dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, poiché riteneva che il potere di controllo si fosse trasferito congiuntamente in capo ai figli del Sig. V.L.
Invero la Commissione Tributaria accoglieva tale orientamento ritenendo che fosse evidente la volontà delle parti di porre in essere un controllo societario congiunto.
Infine, l’Agenzia delle entrate impugnava la pronuncia dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale accoglieva il ricorso.
2. Patto di famiglia e patti parasociali
a) Al fine di comprendere la ratio della pronuncia della Corte di Cassazione è necessario preliminarmente analizzare in estrema sintesi i due istituti fondamentali oggetto della sentenza: il patto di famiglia e i patti parasociali.
Il patto di famiglia è uno dei principali strumenti di tutela del patrimonio della famiglia, volto a favorire e semplificare il passaggio generazionale nelle aziende. Infatti, consente all’imprenditore ancora in vita di designare i soggetti che proseguiranno il suo operato con il fine di prevenire eventuali disgregazioni aziendali, assegnando il complesso di beni che costituisce l’impresa a soggetti che ne possano assicurare la continuità.
Esigenza di grande rilevanza se si pensa che tradizionalmente il tessuto economico italiano è costituito da imprese a carattere familiare: non possiamo non menzionare la famiglia Agnelli, Armani, Barilla, Benetton, Della Valle, Ferragamo.
Tuttavia, tale realtà imprenditoriale è diffusa anche tra le imprese di dimensioni più ridotte. Recentemente si è stimato che imprese familiari con un fatturato superiore a 20 milioni di euro rappresentano il 65% del totale delle imprese italiane; mentre le imprese con un fatturato inferiore a 20 milioni di euro, rappresentano l’85% delle imprese italiane[2]
L’importanza del fenomeno consente di comprendere, dunque, le ragioni della necessità di disciplinare tale strumento, in deroga ad uno dei principi cardine del nostro ordinamento civile: la disciplina dei patti successori ai sensi dell’art. 458 c.c., che determinano la nullità degli accordi con cui un soggetto dispone della propria successione quando è ancora in vita.
Introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 14 febbraio 2006, n. 55 e regolato dagli artt. 768 bis e seguenti del c.c., il patto di famiglia è un contratto con cui l’imprenditore trasferisce l’azienda, tutta o solo in parte, o le sue quote di partecipazione, ad uno o più dei discendenti.
Al fine di consentire la tutela di tutti i legittimari, il patto di famiglia deve essere redatto per atto pubblico e devono parteciparvi il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari qualora si aprisse la successione in quel momento; inoltre, i beneficiari sono tenuti a liquidare a favore dei legittimari la loro quota di legittima qualora questi non vi rinuncino. Pertanto, i legittimari, una volta riconosciuta la propria quota di legittima non possono esercitare l’azione di riduzione ai sensi dell’art.553 c.c. e la collazione ai sensi dell’art. 737 c.c.
b) Il secondo istituto è quello dei patti parasociali, disciplinati ai sensi dell’art. 2341 bis c.c.
Essi sono degli accordi che possono essere stipulati a latere di un atto quale lo statuto o un atto costitutivo.
Tali patti sono diretti a regolare i rapporti e gli obblighi scaturenti dall’atto principale e sono caratterizzati da una comunione di intenti tra le parti che li sottoscrivono.
I patti parasociali, i quali possono essere suddivisi in sindacati di blocco[3] e sindacati di voto[4], non possono avere una durata superiore ai cinque anni e vincolano esclusivamente i contraenti.
3.Pronuncia della Corte di Cassazione
Per quanto concerne la pronuncia della Corte di Cassazione è necessario delineare i profili normativi della non assoggettabilità all’imposta sulle successioni e donazioni per i trasferimenti di quote effettuati anche tramite i patti di famiglia a favore dei discendenti. La materia è disciplinata dall’art. 1 comma 78 del D.lgs. 296 del 2006, il quale ha integrato quanto disposto dall’art. 3 del D.lgs. 346 del 1990.
Secondo la normativa di cui sopra, sono esenti dall’imposta i trasferimenti delle partecipazioni sociali delle società ex art. 73, D.P.R. n. 917/1986[5], qualora questi permettano ai beneficiari di avere il controllo della società ai sensi dell’art. 2359 c.c.
Invero, il controllo della società si realizza quando un soggetto dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, ossia detiene più del cinquanta per cento delle quote o azioni della stessa e gode del diritto di voto. Ulteriore requisito richiesto è la prosecuzione dell’attività d’impresa o la detenzione del controllo della società per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento.
La Cassazione ha ritenuto nel caso di specie che non fosse presente il requisito del controllo societario, in quanto nessuno dei beneficiari è titolare di quota maggioritaria. La Corte specifica che il presupposto ex art. 2359 c.c. si sarebbe potuto realizzare qualora i diritti dei comproprietari fossero stati esercitati da un rappresentante comune o nel caso di quota maggioritaria di uno dei beneficiari.
Si osserva infine, che i requisiti richiesti dalla legge devono essere presenti al momento della stipula del patto di famiglia, diversamente verrebbe meno la funzione stessa dell’istituto che non garantirebbe così il passaggio generazionale. Nel caso de quo i requisiti sono stati oggetto di un accordo successivo e accessorio rispetto al patto di famiglia.
4. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra è necessario esaminare l’iter logico seguito dalla Cassazione.
La dottrina e la giurisprudenza sono conformi nel ritenere che l’imposta di successione sia assimilabile all’imposta di registro per la loro comunanza di principi. Ciò consente di ritenere che l’imposta di successione, come l’imposta di registro, è una imposta d’atto[6], viene cioè pagata al momento in cui l’atto è prodotto per la registrazione presso l’Ufficio competente, in misura fissa o proporzionale. La natura affine delle due imposte consente inoltre di adottare il criterio interpretativo ex art. 20 D.P.R. n. 131 del 1986, secondo il quale si deve applicare l’imposta sulla base della intrinseca natura e degli effetti dell’atto indipendentemente dalla sua denominazione. Secondo un primo orientamento, ormai risalente nel tempo, la disposizione richiedeva che, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, si dovesse valutare il contenuto delle clausole negoziali e gli effetti giuridici dell’atto oggetto di registrazione, indipendentemente dal nomen iuris ad esso attribuito[7]. Questa prima corrente di pensiero si fonda su un criterio cardine: l’interpretazione sostanziale prevale su quella formale. Tuttavia, questo orientamento è stato superato, infatti la Corte di legittimità ha ritenuto che fosse necessario ricostruire la ratio dell’intera operazione che veniva realizzata per mezzo dell’atto. L’art. 20 T.U.R. non era solo “una norma interpretativa degli atti registrati”, ma una “disposizione intesa a identificare l’elemento strutturale del rapporto giudico tributario[8]”, era quindi necessario valutare la causa reale, la finalità economica dell’atto, gli interessi perseguiti anche per mezzo di altri accordi extracontrattuali. Tale interpretazione è oggi, tuttavia, non applicabile in seguito all’art.1, comma 87 L. 23 dicembre 2017 n.205 (c.d. Legge di Bilancio 2018) il quale delimita il potere di qualificazione al singolo atto portato alla registrazione.
Per quanto concerne la materia fiscale l’art. 14 preleggi[9] stabilisce che le norme in materia fiscale, qualora stabiliscano esenzioni o agevolazioni, non consentono l’utilizzo del criterio analogico.
L’interpretazione della norma può avvenire attraverso due criteri: l’interpretazione letterale, vox iuris, che individua il significato immediato delle parole utilizzate; e l’interpretazione logica, che mira a individuare lo scopo che legislatore ha inteso realizzare emanandola.
Concludendo, l’attuazione dell’art. 1 comma 78, D.lgs. 296/06, e art. 3, D.lgs. 346/90, è orientata all’applicazione dei principi interpretativi in materia fiscale di cui sopra. Infatti, l’interpretazione dell’articolo è avvenuta apparentemente in maniera stringente, ritenendo che i requisiti di controllo societario ex art. 2359 c.c. oltre la prosecuzione dell’attività per cinque anni dovessero coesistere nel patto di famiglia al momento della richiesta dell’esonero all’imposta. Sebbene la Corte di legittimità abbia ritenuto che mancasse il requisito del controllo societario non si comprende sulla base di quale interpretazione letterale vi è stata questa lettura dei fatti. Invero il Sig. S.V. cede ai tre figli il 24,50%, cioè il 73,50% della società; i tre figli hanno indubbiamente la maggioranza della società e poiché il padre ha ceduto le quote in maniera paritaria e contestuale ai figli è trasparente la sua volontà di attribuire a questi il controllo della società stessa. Pur applicando una interpretazione letterale né l’art. 2359 c.c. né la disciplina dell’imposta sulle successioni stabiliscono le forme di tale controllo societario, non si comprende perciò perché, ai fini della non applicabilità dell’imposta, fosse necessaria la maggioranza di uno dei figli o la nomina di un rappresentante comune.
Il patto di famiglia adempie, nel caso di specie, alla sua funzione: la prosecuzione dell’attività in capo ai figli, grazie alla maggioranza acquisita per mezzo del trasferimento delle quote.
Dunque, la figura del rappresentante comune richiesto dalla Corte per poter parlare di “controllo societario” in capo ai beneficiari è priva di utilità: questo, infatti, eserciterebbe le sue funzioni secondo le modalità previste dagli artt. 1105 e 1106 c.c., in qualità di mandatario.
Dott.ssa Francesca Manca
[1] D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346: b0d37750-c30f-23a6-7ba7-e87b75331b86 (agenziaentrate.gov.it)
[2] Le imprese familiari – AIDAF
[3] accordi parasociali mediante i quali le parti si impegnano reciprocamente a non alienare le proprie quote o azioni societarie per un periodo determinato. Tale accordo è valido se conforme ai requisiti ex art. 1379 c.c., ovvero è necessario che il divieto di alienazione indichi un limite temporale ragionevole e conveniente e risponda ad un apprezzabile interesse di una delle parti.
[4] accordi parasociali mediante i quali le parti si obbligano a concordare preventivamente le modalità del diritto di voto. La loro funzione è quella di organizzare il governo della società obbligando i soci sottoscrittori ad esercitare il diritto di voto in conformità alle decisioni assunte. Tali patti invero consentono ai soci di maggioranza di uniformare i loro voti verso uno scopo comune, o se sottoscritti dai soci di minoranza, rappresentano un valido strumento di opposizione alle delibere della maggioranza.
[5] D.P.R. n.917/1986, n. 73 comma1 “Sono soggetti all’imposta sul reddito delle società a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione , nonché’ le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato; b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società’, nonché’ i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali; c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché’ gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato; d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato”
[6] Commissione tributaria provinciale di Milano, n. 180/40/2013
[7] Cass. Civ. n. 25005/2016
[8] Cass. Civ. n. 25001/2015
[9] Art. 14 Preleggi “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”