Essere avvocati ai tempi del Covid 19

Descrivere lo stato dell’arte dell’avvocatura italiana colpita duramente dagli strali di una crisi pandemica che pare non finir mai, non risulta affatto semplice.

Le statistiche di Cassa Forense ci raccontano che da una parte continuano a crescere i numeri di una piccola percentuale di professionisti (spesso organizzati in importanti law firm), mentre dall’altra, la grande parte della classe forense italiana sembra non smetter mai di traballare ( si v. https://www.cassaforense.it/rapporto-censis/rapporto-censis-2021/)

Il divario economico tra i professionisti legali poi diventa ancora più importante in relazione al territorio e al genere.

Alla luce di tali dati, senza pretese di esaustività, si può giungere dunque a siffatte conclusioni: a) da soli non si è in grado di offrire servizi adeguati al mercato legale attuale; b) al Sud si guadagna meno del Nord; c) le donne statisticamente guadagnano meno degli uomini.

Ma al netto delle statistiche, le quali non possono che offrirci una visione d’insieme sugli agi e i disagi della classe forense italiana, cosa potrebbe raccontarsi ad un giovane giurista che intende con ardore intraprendere la carriera di Azzecca-garbugli?

Utilizzo volutamente questa parola, nonostante l’accezione popolare negativa del termine di origine lombarda (zaccarbùj), poiché questa di per sé rievoca un concetto di cui tener conto quando si intraprende la carriera forense: un avvocato deve sciogliere i nodi (i garbugli).

Garbugli che durante la crisi sono diventati talmente intricati, da richiedere la compresenza di complesse forze in gioco da tarare di volta in volta secondo le esigenze del cliente.

Da qui il cambio di paradigma: prima si partiva da soli, si guadagnava e si finiva in compagnia (con segretaria e dipendenti); oggi, al contrario, i dati ci dicono che occorre necessariamente partire da un collettivo (con dei partners di Studio), creare un team affiatato con degli obiettivi condivisi e, fatto ciò, dar vita ad uno studio legale.

Pertanto, la prima problematica che si pone dinanzi all’intrepido giurista/artista (in quanto non solo pratica, ma dal nulla crea, alla faccia di Lavoisier!) è la scelta dei colleghi di Studio.

Lungi dal voler insegnare qualcosa a qualcuno, a mio modesto avviso, una buona soluzione, al netto delle essenziali qualità morali dei componenti, potrebbe rinvenirsi in una commistione tra il «vecchio» e il «nuovo».

La compresenza di professionisti “vecchio stampo” tecnicamente preparati, analitici, e più stanziali, e di componenti più creativi, espansivi, abili nel trovare soluzioni, strategie, con spiccate capacità imprenditoriali, può dar vita, ad esempio, a realtà lavorative interessanti.

Il creativo gioverà del lavoro dell’analitico e viceversa, purché tutti lavorino per il team (e non solo per se stessi!).

Nel raggiungimento degli obiettivi potrebbe essere d’ausilio l’applicazione di un metodo valutativo in grado di analizzare, sulla base dei risultati ottenuti, come e quanto il partner contribuisca alla crescita dello Studio: ciò al fine di creare le basi per progredire e migliorare.

Insomma, se vogliamo essere competitivi dobbiamo collaborare.

Procedendo con metodo deduttivo dal generale al particolare, mi sono chiesto, inoltre, cosa dovrebbe fare «singolarmente»un giovane avvocato?

In primis, direi un’autoanalisi.

Dopodiché, mi vien da dire: attenzione alle sfumature!

La competenza – requisito indispensabile – oggi non è più sufficiente.

Dobbiamo necessariamente avere la capacità di interrogarci, comprendere, analizzare i dati e porci la domanda giusta.

Concludo citando un recente studio pubblicato sulla rivista online «Harvard Law Today», in materia di crisi dell’avvocatura (…..non soffriamo solo noi italiani): «Don’t just be a lawyer, Be a strategist, undestand nuance, and have a view to how multiple constituents will view your action».

Non ci resta nient’altro da fare che crescere……e, se necessario, cambiare.

Avv. Francesco Giuseppe Ibba